|
I fascicoli della Commissione d'inchiesta per l'impresa d'Albania
del 1914-21.
Sembrano scritti oggi
Gli errori militari e gli sperperi civili, il doppio gioco
dei socialisti
e le lentezze del governo, i difficili rapporti con i locali.
Una pagina della nostra storia
(Il Giornale, Pubblicato Sabato 19 Aprile 1997)
I
due fascicoli giacevano da 75 anni sul fondo di un bauletto dimenticato nel
solaio di una casa genovese. è uno di quei contenitori d'epoca
dentro il quale ci si aspetta di trovare antichi ricordi di famiglia: un paio
di babbucce, un Borsalino degli anni Trenta, un vecchio cipollone senza le lancette
e magari anche qualche fotografia ingiallita con personaggi ormai difficili
da scovare nei meandri della memoria. Nulla di tutto questo. Quando Alfredo
Ferraro, scrittore ormai ottantenne ma dall'intelligenza sempre vivissima,
ha aperto il vecchio baule appartenuto allo zio paterno Augusto Ferraro (1879-1953),
magistrato di Corte d'appello e sostituto procuratore del Re nella natia
Napoli, vi ha trovato soltanto carte personali e due dossier. Entrambi, sotto
lo stemma sabaudo, portavano l'intestazione «Commissione parlamentare
d'inchiesta»: il primo ha la data del 20 marzo 1922 ed è
la «Relazione generale sull'impresa di Albania»; il secondo
è del 7 novembre 1922 e ha per oggetto «La guerra nelle colonie
libiche». A Ferraro ci volle ben poco per capire che cosa fosse contenuto
in quei fascicoli formati rispettivamente da 100 e da 135 sottili fogli di carta
velina dattiloscritti a carta carbone. Come lo stesso autore aveva vergato di
suo pugno, si tratta di «copie conformi alle originali depositate nell'archivio
della Commissione parlamentare».
Commissione di cui appunto il giudice Augusto Ferraro era segretario e per conto
della quale aveva svolto approfondite indagini sia in Albania sia in Libia.
Il perché è presto spiegato. Le avventure italiane nei Balcani
e in terra africana si erano rivelate un vero disastro e il Parlamento, ma soprattutto
la Corona, voleva sapere il perché. Da qui la nomina di una Commissione
parlamentare d'inchiesta e l'invio sul posto del giudice Ferraro.
Persona quanto mai ligia al dovere e meticolosa fino alla pignoleria, Ferraro
aveva presentato le sue conclusioni in quelle relazioni. Relazioni riservate
che, dopo essere state esaminate con la dovuta attenzione dalla Procura del
Re e dal presidente del Consiglio Luigi Facta, erano state opportunamente archiviate.
Parlando della nostra appena iniziata avventura militare in terra balcanica,
è stupefacente notare la similitudine tra le due imprese. Allora come
oggi per l'Albania si sfiorò la crisi di governo e allora come
oggi l'estrema sinistra cercò di bloccare sul nascere una spedizione
che, per tutta una serie di ragioni, poi si rivelò un vero disastro.
Sappiamo come andarono le cose in quegli anni, ci resta il dubbio su come andranno
questa volta. Intanto vediamo che cosa scopri nel ‘22 il giudice Ferraro
nel corso della sua indagine dall'altra parte dell'Adriatico.
Un'impresa
da dimenticare. Il giudice Ferraro prende in esame gli anni che vanno
dal 1914 al 1921, e cioè da quando l'undicesimo Reggimento bersaglieri
sbarcò a Valona fino all'autoproclamazione di Repubblica indipendente
e, quindi, alla cacciata degli italiani dal suolo albanese. Nessun aspetto viene
trascurato: nella relazione si parla di propaganda, azione militare e politica,
costo dell'impresa, sperperi, malversazioni, organizzazione dei poteri,
eventuali recuperi.
La prima scoperta del giudice Ferraro tu l'inutilità del cosiddetto
Ufficio Albania e Paesi Balcanici, un ente fondato alla fine del ‘17 e
diretto dal colonnello Fortunato Castoldi. In trentaquattro mesi di vita l'ufficio
assorbì esattamente 279.942 lire e 48 centesimi riuscendo soltanto a
«foraggiare» i giornali Ruvendi, Corriere delle Puglie, La Nazione
Albanese e La Giovane Europa. Inoltre concesse 37 borse di studio e pagò,
a vario titolo, cinquantun persone. Insomma, il solito inutile carrozzone.
Nell'ottobre del 1918, quando venne costituito il primo governo provvisorio
albanese su ciò che restava della dominazione turca, Roma creò
l'Alto Commissariato Italiano in Durazzo a difesa degli interessi italiani in
Albania e, ancora una volta, la nomina andò a Castoldi che, vista l'opportunità
che gli veniva offerta,pensò bene di dare le dimissioni dall'Esercito.
Poco tempo dopo il Commissariato venne trasformato in Regia Delegazione sempre
con a capo il Castoldi.
Il
disastro di Durazzo. Dopo l'arrivo dei bersaglieri, la presenza
italiana in Albania si intensificò con lo sbarco a Valona, avvenuto nel
dicembre del ‘15, di un intero corpo di spedizione comandato dal generale
Emilio Bertotti. Come fin troppo spesso accade nelle questioni militari italiane,
anche in Albania le cose non andarono per il verso giusto. Ferraro ci racconta
come fu che perdemmo la roccaforte di Durazzo. La città era stata occupata
da una nostra brigata al comando del generale Giacinto Ferrero il quale, prevedendo
un imminente attacco da parte delle preponderanti forze austriache, ne aveva
fortificato le difese. Ferrero conosceva bene il suo mestiere. Infatti da lì
a poco nei pressi di Durazzo apparvero due intere divisioni austrobulgare con
artiglieria pesante e un seguito di irregolari organizzati a bande. L'amore
per le armi degli albanesi, come si vede, non è un fatto nuovo. Dal momento
che Ferrero non aveva né voglia di arrendersi né desiderio di
ripetere il suicidio collettivo di Alamo, ritenne che la cosa più saggia
fosse ritirarsi mettendo in salvo uomini e mezzi sulle navi della Marina.
Detto fatto, Ferrero il 14 febbraio 1916 telegrafò a Bertotti chiedendo
il permesso di sgombero. Il suo superiore glielo concesse. Il giorno dopo Ferrero
si mise in contatto con l'ammiraglio Cutinelli e questi fece in modo che
il 16 febbraio nella rada di Durazzo si trovassero quindici piroscafi da carico,
due navi ospedale e due cacciatorpediniere a difesa della ritirata. Gli italiani
erano dunque pronti a lasciare l'ormai indifendibile Durazzo quando, con una
delle tante giravolte che hanno reso i militari italiani tristemente noti nel
mondo, il generale Bertotti inviò un telegramma a Ferrero nel quale si
sosteneva che la minaccia austriaca era inferiore al previsto e quindi «codesta
brigata ha compito ben definito istruzioni inviate Ministero e non deve preoccuparsi
rientrare qui integra, ma assolvere bene il suo compito». In sostanza,
restate lì e bloccate gli austriaci, costi quel che costi. Fu la fine:
il 23 febbraio gli austriaci attaccarono su tutta la linea, sfondarono le nostre
posizioni in località Sasso Bianco e Ferrero, con le truppe decimate
dall'artiglieria pesante, ritelegrafò a Bertotti chiedendo l'immediato
aiuto della Marina. Questa volta il comandante in capo delle truppe italiane
in Albania fu costretto a dare il suo assenso, ma ormai la frittata era fatta.
Infatti «l'imbarco fu precipitoso e disastroso, sia per i tiri del
nemico, sia per il mare cattivo, sia per la mancanza di mezzi di caricamento,
sia in ultimo per il numero dei feriti e dei malati».
A quel tempo Castoldi era a capo dell'Ufficio politico militare, cioè
dell'organismo di intelligence che consigliava Bertotti. Commentando la
richiesta d'aiuto di Ferrero, Castoldi si era espresso così con
un notabile italiano residente a Valona: «Come è cretino quel Ferrero:
questi generali son capaci soltanto di far la parata, ma non di fucilate».
In seguito Bertotti venne messo a riposo, Castoldi invece continuò a
far danni e carriera.
Quanto a Ferrero, alla fine venne nominato comandante delle truppe dell'Albania
meridionale, ma non durò a lungo. Volendo allentare la morsa austriaca
su Valona, Ferrero progettò l'occupazione di Berot e Fieri, ma
a sua volta fece male i conti e l'operazione si concluse con un rovescio
militare.
Il
nuovo nemico: gli albanesi. Sconfitta l'Austria-Ungheria, gli Italiani
che si trovavano in Albania dovettero affrontare un nuovo nemico: il popolo
albanese. Pare che a soffiare sul fuoco fossero gli intellettuali albanesi che
abitavano da anni in Italia e negli Stati Uniti. «La propaganda anti-italiana
si intensificò a poco a poco - scrive Ferraro - e perfino gli italo-albanesi
sottoscrissero nel maggio 1920 un appello diretto al presidente degli Stati
Uniti d'America, invocando l'intervento di lui e protestando contro
la politica dell'Italia».
In breve l'odio albanese contro l'Italia si trasformò in
una vera e propria sommossa popolare armata. Nel giugno 1920 gli insorti riuscirono
a fare arretrare gli italiani costringendoli a rifugiarsi a Valona. «Il
nostro prestigio era menomato - racconta Ferraro -, il Parlamento italiano rifiutava
il suo consenso a una ulteriore impresa militare; e allòra il governo,
con provvedimento d'urgenza, fu costretto a decidere lo sgombro di Valona
e la cessazione della nostra occupazione. E in data 2 agosto del 1920, il conte
Manzoni in rappresentanza dell'Itaiia, stipulava col governo provvisorio
albanese un accordo, chiamato comunemente protocollo di Tirana, col quale, in
omaggio alla. integrità territoriale dell'Albania, si stabiliva
il rimpatrio di tutte le truppe italiane».
Ferraro si avventura a spiegare perché gli albanesi ce l'avevano
tanto con gli italiani e soprattutto a causa di chi. Buona parte della colpa
viene data ai militari. «Una colluvie di bandi limitò inesorabilmente
le pubbliche libertà - scrive Ferraro - : fu vietato il possesso delle
armi, fu vietata la libera circolazione, fu limitato il commercio, furono vincolate
la caccia e la pesca, un regolamento italiano di polizia disciplinò anche
le piccole attività del popolo minuto; fu ordinata perfino la espropriazione
forzata della proprietà privata, fu imposta ancora agli enti locali la
nostra amministrazione».
Gli animi cominciarono a scaldarsi quando gli albanesi conobbero il contenuto
del Patto di Londra stipulato il 26 aprile del 1915 in seguito alle direttive
del ministro degli Esteri, Sidney Sonnino. Infatti il patto prevedeva non solo
il protettorato italiano sul «Paese delle aquile», ma anche la suddivisione
tra Montenegro, Serbia e Grecia delle parti settentrionale e meridionale dell'Albania.
Per parare il colpo, il ministro Sonnino, che amava condurre la politica estera
come fosse affare suo personale, il 3 giugno 1917 fece leggere al generale Ferrero
un proclama con il quale si prometteva «libertà e indipendenza
all'Albania sotto l'egida e la protezione dell'Italia».
Tale editto, conosciuto in seguito come il «proclama di Argirocastro»,
non era però stato concordato con il Consiglio dei ministri italiano.
Il presidente, Paolo Boselli, lo venne a sapere dalla figlia che aveva letto
i giornali. Per protesta i ministri Ubaldo Comandini (repubblicano) e i socialriformisti
Leonida Bissolati e Ivanoe Bonomi presentarono le dimissioni. Si arrivò
davvero a un passo dalla crisi di governo.
Ma la sollevazione contro gli italiani avvenne due anni dopo, esattamente quando
si seppe che il 29 luglio del 1919 il ministro Tettoni aveva firmato a Parigi
un nuovo accordo con il primo ministro greco Eleuterio Venizelos per concedere
a1la Grecia l'annessione de1l'Albania del Sud. Sentendosi traditi
e pugnalati alla schiena, gli albanesi insorsero.
«Il popolo di Albania dimenticò agevolmente tutti i vantaggi ricevuti
dalla nostra occupazione
- spiega Ferraro -: dimenticò le strade ordinarie e ferroviarie da noi
costruite; dimenticò i commerci da noi attivati, i servizi postali e
telegrafici da noi istituiti; dimenticò le bonifiche da noi fatte, i
campi sperimentali impiantati, i lavori pubblici eseguiti a beneficio del Paese,
le miniere di nafta e di petrolio da noi organizzate, i macchinari da noi importati
per sfruttare scientificamente i vasti oliveti; dimenticò soprattutto
l'assistenza sanitaria da noi elargita al Paese e la restaurazione delle
finanze da noi compiuta, per ricordare soltanto la umiliante condotta diplomatica
dei nostri rappresentanti».
I Bertinotti dell'epoca. È proprio vero, parafrasando Giambattista Vico, che la storia a volte si ripete. Gli italiani dell'epoca, infatti, restarono addirittura allibiti quando seppero dalla viva voce di Kìazim Kokoshi, rappresentante dell'Albania a Roma dopo la rivolta anti-italiana che la vittoria dell'insurrezione era dovuta principalmente all'aiuto fornito agli insorti dai socialisti italiani. «Nessuno in Albania si sarebbe sognato di levarsi in armi contro gli italiani, se gli albanesi non fossero stati istigati dalle promesse del Partito socialista ufficiale italiano», confidarono alcuni notabili albanesi al generale Piacentini. E infatti Ferraro nella sua inchiesta appurò che «il Partito socialista fece ampia propaganda fra le nostre milizie in Albania, per indurre i soldati ad astenersi dal combattimento, e operò a tutt'uomo in Italia per impedire al nostro governo l'invio dei necessari rinforzi».
Un
patrimonio di opere realizzate. Quando gli albanesi diedero il benservito
agli italiani, si ritrovarono in possesso di un vasto patrimonio di opere pubbliche
costruite dagli «invasori». Rispetto al periodo precedente lo sbarco
dei primi bersaglieri, gli albanesi si ritrovarono 546 chilometri di nuove strade,
110 chilometri di rete ferroviaria, 3mila chilometri di linea telegrafica, nove
teleferiche, senza contare i numerosi palazzi edificati dagli italiani. Oltre
a tutto questo, nella lista figuravano «55 autocarri quasi tutti di tipo
Fiat, 432 copertoni, 540 camere d'aria, 105 chilometri di reticolati,
una batteria da montagna da 70, una batteria da montagna Skoda da 75, nove cannoni
da 152 e circa 17mila proiettili». In una sola notte, racconta sempre
Ferraro, «furono audacemente rubati in nostro danno 6mila proiettili da
cannone e 8mila chilogrammi di esplosivo».
Fu curioso il fatto che gli albanesi, non contenti di tutto quel bel di Dio,
chiesero anche i danni.
La solita disorganizzazione. Anche allora, comunque, gli italiani non spiccavano per capacità organizzativa. Succedeva così che i rifornimenti al nostro Esercito fossero fatti in modo del tutto scombinato, causando anche danni economici di non lieve entità. «Così ad esempio - continua Ferraro - giungevano a Valona, in estate rilevanti quantità di baccalà, che le truppe rifiutavano perché putrefatto a causa del caldo. Similmente, per esempio, il Comando d'Albania richiedeva asini e fieno; e mentre i primi giungevano in sufficiente quantità, il fieno non veniva spedito. E allora gli asini, per difetto di pascoli locali, o morivano o venivano uccisi per utilizzarne la carne. Scomparsi gli asini, giungeva allora il fieno che, diventato inservibile, veniva accatastato sulla spiaggia e sovente si incendiava per combustione spontanea».
Un
Paese inaffidabile. Giungendo alla conclusione della sua relazione, il
giudice Ferraro avverte che i rapporti tra Italia e Albania all'indomani
della cacciata delle nostre truppe devono assolutamente essere improntati alla
massima prudenza. «L'Albania, attualmente, è un Paese poverissimo
- spiega Ferraro - dilaniato dalle discordie intestine, privo di qualsiasi alta
possibilità economica, ignaro di qualsiasi organizzazione industriale;
abbandonato nell'agricoltura, privo soprattutto di iniziative, infestato
dalla malaria. Eppure, potenzialmente, è un Paese dotato di ricchezze
latenti inesauribili». E continua sostenendo che l'Italia in effetti
potrebbe intraprendere relazioni economiche con l'A1bania se solo tutte
le possibilità industriali e agricole del posto venissero sfruttate a
dovere. Il problema, insiste il magistrato, è ottenere dagli albanesi
le necessarie garanzie. «Un accordo puro e semplice con l'Albania
senza clausole di garanzia sarebbe assolutamente sconsigliabile - afferma Ferraro
- giacché l'inadempienza, dato il carattere primitivo del popolo,
seguirebbe immediatamente il contratto».
E torna su questo punto spiegando che «poiché la generale mentalità
albanese non concepisce una politica fondata sul diritto e sulla cortesia internazionale,
ma concepisce solo la politica del più forte sembra necessario che, per
ottenere l'adempimento delle stipulate obbligazioni, il nostro governo
non debba adoperare soltanto il mezzo ordinario della discussione, che gli albanesi
ritengono debolezza, ma debba prevedere e anche eventualmente adoperare il mezzo
più energico della esecuzione forzata». In questi mesi scopriremo
a nostre spese se questo consiglio, a 75 anni di distanza, resta ancora valido.
Alcune foto sono state tratte da "Photos of the Great War"
© RIPRODUZIONE RISERVATA
I miei libri | I miei articoli | Eventi & News | Rubrica Letteraria | Multimedia
Documenti | Facebook | Twitter | YouTube | Instagram | Contatti
© 2001-2024 Rino Di Stefano – Vietata la riproduzione, anche parziale, senza esplicita autorizzazione
Informativa sul Copyright – Informativa sulla Privacy