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IL RITORNO DEL PRINCIPE

(2014)

Un romanzo dal passato

di Rino Di Stefano

Copertina de "Il Ritorno del Principe"

“Il ritorno del Principe” è il mio terzo romanzo, ma nasce da un’idea che risale all’ormai lontano 1977. Vorrei precisare, affinché non ci siano dubbi, che in quanto romanzo sia la trama che i personaggi sono frutto di fantasia. Anche se in questi libri traspare sempre un qualcosa relativo alle mie passate esperienze personali, non mi piace inserire elementi autobiografici nell’intreccio del racconto che scrivo. Un romanzo nasce da un progetto, da sensazioni, spesso da ricordi e dal desiderio di ricreare situazioni che, per quanto possano sembrare verosimili, non devono per forza rispecchiare la realtà. Nel caso specifico, “Il ritorno del Principe” narra dell’inchiesta di un giornalista milanese inviato a Napoli per scrivere un articolo di colore su un nobile del Settecento napoletano: Raimondo de Sangro, Principe di San Severo. Non voglio anticiparvi nulla della trama, perché vi toglierei il piacere della lettura. Dico soltanto che la trasferta del giornalista si trasforma in un’avventura a metà tra lo spiritismo e il paranormale, con notevoli implicazioni criminali da parte di una setta segreta. Come finirà, lo scoprirete leggendo.
Voglio raccontarvi, però, come e in quale occasione mi è nata l’idea di scrivere questo romanzo. Tutto nasce nella redazione del quotidiano genovese del pomeriggio “Corriere Mercantile”, dove sono stato assunto lunedì 13 giugno del 1977, appena tornato dai miei studi di giornalismo negli Stati Uniti. Anni prima, quando ancora studiavo Scienze Politiche all’Università di Genova, vi avevo collaborato, diventando giornalista pubblicista. Nel giugno del ’77, invece, ero aspirante praticante giornalista. Sarei diventato praticante a tutti gli effetti solo l’anno dopo. Per chi non lo sapesse, praticante è il primo passo per diventare giornalista professionista: si fanno diciotto mesi di praticantato in una redazione, poi si va a Roma a sostenere l’esame di Stato (scritto e orale). Se lo si supera, si viene iscritti nell’Albo dei Giornalisti Elenco Professionisti.
Dunque, avevo iniziato il mio lavoro al “Corriere Mercantile” partendo dal settore che è alla base del mestiere, la cronaca nera. A parte i vari omicidi, rapine e situazioni sordide di ogni tipo che fui costretto a cuccarmi, ben presto venni catapultato in quella che era la situazione più frequente di quei giorni: il terrorismo. Mi sono fatto una bella esperienza in materia di Brigate Rosse e per alcuni anni quella è stata la mia attività principale.
Tuttavia, avevo qualche problema in redazione. Non faccio certi nomi perché sono situazioni che appartengono al passato e non voglio coinvolgere nessuno, ma devo dire che mi trovavo piuttosto bene con colleghi e direttore. Un po’ meno con il capo cronista il quale, pur essendo una brava persona e del quale nonostante tutto conservo ancora un bel ricordo, aveva una fissa: dal momento che ero andato a studiare negli Stati Uniti, ai suoi occhi dovevo essere per forza un fascista o, comunque, un estremista di destra. Se soltanto avesse parlato qualche volta con me, si sarebbe accorto che le mie simpatie politiche si avvicinavano al socialismo liberale di Carlo Rosselli. E, dunque, un liberalismo moderno che si conciliava con la giustizia sociale necessaria ad uno Stato contemporaneo. Ma allora, se parlavi con un comunista, ti rendevi subito conto che o eri come lui, oppure eri un fascista. I fanatici della falce e martello non conoscono mezze misure. Comunque, a prescindere dalle diverse opinioni politiche, questo signore nei primi tempi cercava di isolarmi in redazione. E fu proprio uno di quei giorni, cioè quando non avevo nulla da fare, che in redazione arrivò il direttore (che allora era Massimo Zamorani), chiedendo un volontario, perché aveva un incarico da assegnargli. Tutti immediatamente chinarono il capo verso la macchina per scrivere, fingendo di essere occupatissimi. L’unico libero ero io, dunque mi alzai e dissi che ero disponibile. Il direttore mi portò nel suo studio e mi spiegò di che cosa si trattava. Il suo amico Enzo Tortora, allora in auge con la seguitissima trasmissione televisiva “Portobello”, aveva un problema. Una donna napoletana gli aveva scritto raccontandogli che l’8 settembre del 1943, salvò un giovane soldato italiano che era stato catturato dai tedeschi. Camminava in colonna, assieme a tanti altri prigionieri, e, quando passò vicino al suo portone, l’allora ragazza (che si chiamava Antonietta De Mattia) lo chiamò, lo afferrò per un braccio e lo trascinò dentro. Le guardie tedesche spararono, ma non vedendolo più, lasciarono perdere. Quel gesto salvò la vita al soldato Aldo Franzosi. La famiglia della ragazza nascose il giovane, che aveva diciott’anni, per due giorni. La madre di Antonietta, Margherita Pasquallino, lo chiamava “fighiu miu” e “piccirillo”. Ed è come un figlio che lo trattavano. Volevano che restasse, che aspettasse tempi migliori prima di mettersi in viaggio. Ma lui fu irremovibile e, rischiando di finire un’altra volta nelle mani dei tedeschi, salutò i suoi salvatori e si incamminò verso il Nord, verso casa. Non sapeva che circa due settimane dopo, dal 27 al 30 settembre 1943, l’insurrezione popolare avrebbe liberato Napoli dall’occupazione tedesca. Quando il primo ottobre gli americani entrarono in città, non c’era più un solo tedesco in giro. Mentre i napoletani esultavano per la vittoria contro l’oppressore germanico, in casa De Mattia continuavano a pensare a quel soldatino che avevano salvato. Di lui non avevano più avuto alcuna notizia. Aveva promesso che, se ce l’avesse fatta, si sarebbe fatto vivo. E quell’angoscia era sempre rimasta nella loro memoria.
A 34 anni da quei giorni, la signora napoletana, ormai sposata con Umberto Esposito e madre di cinque figli, voleva sapere se “Portobello” poteva fargli ritrovare quel soldato. Era ancora vivo? Ce l’aveva fatta? Di lui sapeva soltanto nome, cognome ed età. Tortora aveva chiesto all’amico direttore se poteva affidare ad uno dei suoi cronisti il compito di cercare quel soldatino, così miracolosamente salvato. E il direttore, facendomi tanti auguri, passava la patata bollente a me. Ricordo che fu il mio primo incarico importante. Dovevo far vedere che ero all’altezza del compito che mi era stato affidato, ma non era semplice. Per farla breve, grazie all’aiuto di una dirigente dell’Anagrafe comunale che si era impietosita avendo saputo della mia ricerca, riuscì ad ottenere la lista di tutti coloro (sei nominativi) che si chiamavano Aldo Franzosi e vivevano nell’area della grande Genova. Avevo chiesto anche i nomi delle rispettive mogli, tanto per avere qualche possibilità in più. E questo fu un dettaglio fondamentale. Nonostante il fatto che non fosse nato in Liguria, ma in Lombardia, nel giro di 48 ore trovai il soldatino (che nel ’78 era un dirigente aziendale), intervistai lui e la sua famiglia, poi  mi presentai al mio direttore che, raggiante, chiamò subito Tortora. Il caso divenne subito nazionale. Il presentatore organizzò tutto per bene. Era la sera di giovedì 7 luglio 1977. Prima di tutto chiamò in trasmissione la signora Antonietta e le fece raccontare nei particolari ciò che accadde quel giorno del ’43. Nel frattempo, io ero in casa di Aldo Franzosi, con la sua famiglia, con il telefono in collegamento aperto con il centralino di “Portobello”. Quando la signora ebbe finito il suo racconto, Tortora si voltò verso la telecamera e, con la solita flemma, fece la domanda di rito ai telespettatori: se qualcuno conosceva Aldo Franzosi, era pregato di chiamare subito “Portobello”. Dopo qualche secondo, il telefono squillò: “Sono Aldo Franzosi – disse una voce rotta dall’emozione – sono io il soldato salvato dalla signora Antonietta”. Il pubblico presente nello studio scoppiò in un lunghissimo e interminabile applauso. La commozione era alle stelle, molti avevano le lacrime agli occhi. La signora Antonietta scoppiò a piangere davanti a 17 milioni di telespettatori, coprendosi il volto con entrambe le mani; l’Italia televisiva venne percorsa da un’ondata emotiva senza precedenti; i giornalisti cominciarono ad agitarsi per sapere da dove diavolo fosse saltato fuori quell’ex soldatino dopo 34 anni. Ovviamente, il giorno dopo (venerdì 8 luglio 1977) l’unico quotidiano che riportò per intero tutta la storia, con tanto di fotografie in prima pagina, fu il “Corriere Mercantile” con un articolo titolato: “Sì, sono vivo!”, firmato da me. Per ricompensarmi del mio lavoro, venni inviato a Napoli, a spese della Rai, per assistere all’incontro tra i due. E partecipai anche alla diretta televisiva da Napoli, che venne vista da mezza Italia. Per un ragazzo che non era ancora un praticante, assunto da appena 24 giorni, fu uno scoop sensazionale. Il mio primo scoop nazionale, per essere esatti. Il direttore volle firmarmi l’articolo “dal nostro inviato” e tre colleghi anziani, ai quali stavo cordialmente antipatico, mi denunciarono all’Ordine dei Giornalisti in quanto, sostenevano, solo un giornalista professionista può firmarsi in quel modo. Venni messo anche sotto processo dall’Ordine, ma fui assolto in quanto era palese che non ero stato io ad auto conferirmi il titolo di inviato.
A rileggere adesso quei vecchi articoli, devo dire che peccavano di un errore che un giornalista non dovrebbe mai fare: mi ero lasciato coinvolgere nella storia e la descrissi non con l’occhio dell’osservatore imparziale, come avrei dovuto fare, bensì come se fossi stato una delle parti in causa. Ma ero così giovane… Non ero preparato a tutto il clamore che quella storia in effetti suscitò.
E fu così, comunque, che Napoli entrò nella mia vita. Con la famiglia della signora Antonietta Esposito si stabilì un rapporto affettivo che dura ancora oggi. Dei suoi cinque figli (tre femmine e due maschi) una, in particolare, colpì la mia attenzione. Si chiamava Matilde e durante una mia successiva vacanza a Napoli, insistette per portarmi a visitare la Cappella gentilizia di Raimondo de Sangro, Principe di San Severo, personaggio del ‘700 che io non avevo mai sentito nominare. Quella visita mi restò impressa nella mente. Le meraviglie di quel luogo sono tante e tali che non si possono descrivere in due parole. Chi fosse interessato, può leggere l’articolo che trova in questo stesso sito. La ragazza mi raccontò anche la storia di San Severo, mi parlò delle sue scoperte e delle tante leggende (alcune decisamente macabre) che circolano su di lui. In particolare una colpì la mia attenzione. Pare che nel presente esistesse una specie di setta segreta, formata da fior di professionisti dediti all’occulto, che cercavano il tesoro nascosto del Principe. Un tesoro, per inciso, di cui non si sa assolutamente nulla. Presi alcune informazioni e accertai l’esistenza della misteriosa setta, ma non diedi un peso eccessivo a questa notizia. Dopotutto, mi sembrava una delle tante stranezze che vedevo a Napoli. Però, una sera, mentre mi trovavo ad una festa di piazza insieme a Margherita, la sorella di Matilde, e al suo fidanzato La cappella di San Severo a NapoliRaffaele, un libraio ambulante ci raccontò un’altra strana storia. Ci disse, infatti, che quella setta segreta era quanto mai pericolosa ed era alla disperata ricerca di una giovane che, essendo una medium, era l’unica che poteva mettersi in contatto con lo spirito del Principe. Quella giovane, aggiunse il libraio, era riconoscibile soltanto da un particolare: aveva una voglia di fragola, a forma lenticolare, sotto l’incavo del ginocchio destro. A quelle parole, i miei due accompagnatori impallidirono. Soprattutto la ragazza. Io non capivo e dopo un po’, quando si fu calmata, le chiesi che cosa l’avesse turbata così tanto. “Conosco quella ragazza – mi confessò – so chi è …”, ma non volle aggiungere altro. E io non ritenni che fosse il caso di turbarla oltre. Trascorsero altri giorni, sempre all’insegna della tensione per la storia del Principe. Durante le mie ricerche, accadevano strane coincidenze che mettevano a dura prova il mio ben collaudato raziocinio. Per esempio, venne fuori che il Principe sarebbe stato uno dei maestri occulti di Cagliostro. Il grande occultista lo confessò quando venne processato nello Stato Pontificio, ma nessuno volle credergli. Una sera, ricordo, mi sembrò persino di “sentire” la presenza di quel misterioso Principe. E non fu una sensazione piacevole. Insomma, non nascondo che rimasi impressionato dalla dimensione più o meno “magica” di quella Napoli sconosciuta.
Poi me ne tornai a casa e, col tempo, conservai in un cassetto della mia mente quella strana storia napoletana. Adesso ne ho fatto un romanzo. Ripeto: trama e personaggi sono frutto di fantasia. L’ispirazione, invece, si deve all’atmosfera surreale e paranormale dell’antica magia occulta che ancora oggi si respira  nell’oscuro mondo misterioso dei vicoli partenopei.

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(I ritagli di giornale che appaiono qui appartengono agli articoli pubblicati nel Luglio 1977 sul Corriere Mercantile)

Dettagli del libro (Edizione cartacea):

Copertina flessibile: 272 pagine
Editore: CreateSpace Independent Publishing Platform
Data di pubblicazione: 30 Settembre 2014
Lingua:
Italiano
ISBN-10: 1502508575
ISBN-13: 9781502508577
Prezzo di listino: €12,90

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Dettagli del libro (Edizione digitale):

Formato: Kindle
Dimensioni file:
827 KB
Editore: Rino Di Stefano
Data di pubblicazione: 30 Settembre 2014
ASIN: B00O27R23U
ISBN-10: 8890965053
ISBN-13: 9788890965050
Lingua:
Italiano
Prezzo di listino: €3,99

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