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(Racconto pubblicato nel volume “Notte di Natale”
edito nel Dicembre 2005 dalla Provincia di Genova)
(Pubblicato Giovedì 1 Dicembre 2005)
Dalle
ampie vetrate dell'ufficio, Carlo Pagliari poteva vedere buona parte della Marina
di Miami, i moli, le barche, la lunga fila di palme lungo i viali e, a perdita
d'occhio, l'immenso azzurro dell'Oceano. Lo sguardo, però, era puntato sull'infinito.
Guardava ma non vedeva. Il pensiero si perdeva nel panorama, inseguiva il ricordo
di anni passati, immagini che si inseguivano nella mente tracciando il ricordo
di fatti che ormai si confondevano nella memoria, mischiandosi gli uni agli
altri senza un preciso ordine cronologico. Paolo era morto. Lo aveva appena
appreso leggendo la notizia sulle pagine interne del Secolo XIX, il quotidiano
che ormai costituiva l'unico legame con la natia Genova. Alla Costa Crociere
di Miami, dove lavorava, gliene portavano qualche copia di tanto in tanto. Erano
diversi anni che non tornava a casa. A Miami, dove ormai viveva da quasi vent'anni,
si era fatto una famiglia: una moglie americana, due figli, una casa con giardino
e piscina. No, non aveva alcuna ragione per rimpiangere Genova. E il fatto che
i suoi erano morti, prima il papà e poi la mamma, in pratica gli aveva anche
fatto spezzare il legame affettivo con la città natale. A 55 anni poteva dire
di non avere rimpianti di sorta.
Ma adesso Paolo era morto. E alla mente gli affioravano pensieri che aveva ricacciato
a forza nell'angolo più buio della memoria. Quanti anni aveva allora? Forse
19 o 20, non ricordava con precisione. Però ricordava bene le lunghe chiacchierate
con Paolo, i progetti che entrambi si confidavano, i pomeriggi all'Università.
Così come gli tornava alla mente lei, Morena, il primo amore della sua vita.
Aveva un anno più di lui, era piuttosto alta, il viso lungo illuminato da due
grandi occhi castani, il labbro inferiore leggermente prominente e i capelli,
anch'essi bruni, le cadevano appena sulle spalle. Era lei che lo aveva portato
nel Castello, il club che una ventina di ragazzi aveva messo su a Voltri, nell'estremo
ponente di Genova. Nascosto tra i carruggi della delegazione, un tempo Comune
autonomo e tale rimasto nella mente dei residenti, il Castello costituiva una
specie di rifugio per un gruppo assai selezionato di giovani voltresi. La domenica
vi organizzavano feste da ballo con tanto di orchestrina, formata da loro stessi.
Paolo suonava il basso. Nei giorni feriali si vedevano principalmente la sera,
tanto per scambiare due chiacchiere e fumarsi una sigaretta. Il pomeriggio,
quando si poteva, c'era chi si appartava con una ragazza…
Paolo era morto in un incidente stradale sulla A10, l'autostrada Genova-Savona.
Sul giornale c'era anche la sua foto. Era invecchiato anche lui, povero Paolo.
Il cronista raccontava che era caduto con la moto, la sua grande passione di
sempre, finendo sotto le ruote di un Tir. Carlo rabbrividiva mentre leggeva.
Poi gli tornò alla mente quella terribile sera che lo perseguitava da allora,
l'incendio, il ragazzo carbonizzato, le accuse nei suoi confronti, Paolo che
cercava di confortarlo, il suo abbandono del gruppo. Non tornò mai più a Voltri.
E quell'incubo, che la morte di quel ragazzo fosse dovuta proprio a lui, non
lo abbandonò mai più.
No, il minimo che poteva fare era partecipare ai funerali di Paolo. E fu così
che quella mattina decise che sarebbe tornato a Genova. Mancavano dieci giorni
a Natale, non poteva perdere tempo. Per cui ne parlò in ufficio, comunicò la
sua decisione alla moglie e l'indomani mattina era sul primo aereo per l'Europa,
destinazione Genova via Londra.
Quando scese dalla scaletta respirò a pieni polmoni. Riconosceva l'aria di casa.
Si guardò intorno, quasi a volersi rendere conto che era proprio a Genova. Guardò
con affetto i monti e si fermò a guardare il mare della sua giovinezza. Il Cristoforo
Colombo
gli fece l'impressione di un aeroporto piccolo, quasi da paese. Fu un attimo
e poi si accorse che ormai aveva maturato un ordine di grandezza diverso. Era
abituato ai grandi scali internazionali, agli spazi immensi, alle grosse Pontiac
da otto cilindri. Genova gli sembrò minuta, una realtà d'altri tempi. Poi si
fece accompagnare allo Sheraton, lì nella cinta aeroportuale. Quando era partito,
si sorprese a pensare, quell'albergo non c'era ancora. Aveva promesso a Judy,
sua moglie, che si sarebbe fermato non più di tre giorni. E aveva intenzione
di rispettare l'impegno.
In camera si svestì e si buttò sul letto. I funerali, rifletteva, si sarebbero
svolti l'indomani mattina alle 10. Poi si addormentò.
Alle 9 la Ford Focus a noleggio lo aspettava nel parcheggio dello Sheraton.
Detestava andare in giro in taxi, voleva muoversi come voleva. Prese dunque
l'Aurelia e puntò direttamente verso ponente. Il paesaggio, notò durante la
strada, era cambiato rispetto all'ultima volta che era stato a Genova. Da Pegli
in avanti, soprattutto, con quell'enorme terrapieno portuale che prima non c'era.
A Voltri parcheggiò sulla piazza del Comune e poi si avviò a piedi verso la
chiesa. Ricordava ancora la scritta sulla meridiana: "Voltri l'industre
ove il vento regna dell'Europa central l'ora ti segna". Se glielo avessero
domandato soltanto due giorni prima avrebbe scommesso di averlo dimenticato.
Si domandò se avessero potuto riconoscerlo, ma ne dubitava fortemente. Il suo
fisico era molto diverso rispetto a prima. Adesso aveva 20 o 25 chili in più;
i capelli, ormai brizzolati, da un pezzo si diradavano sulle tempie; il volto,
un tempo magro e affilato, adesso era pieno e circondato da barba e baffi; inoltre
portava un paio d'occhiali di tartaruga che gli conferivano un aspetto quasi
professorale.
La chiesa non era molto illuminata. Carlo si tolse il cappello e avanzò di qualche
metro verso la navata di destra. C'era molta gente, ma non tanta da riempire
tutte le panche. La bara, ricoperta da due corone e alcuni mazzi di fiori, era
al centro, sotto l'altar maggiore. Avvicinandosi li vide. Il vecchio gruppo,
o almeno ciò che ne rimaneva, si era riunito attorno al vecchio amico. A sinistra,
alto ed elegante nel lungo cappotto blu, c'era Giorgio. Anche lui, come Paolo,
aveva intrapreso la carriera del medico. Vicino poteva ancora riconoscere Francesco,
Renato, Lilly, Enrico. E poi, subito a fianco, Morena. Il cuore gli prese a
battere più forte, ma fu solo un momento. La guardò. Il tempo non aveva inciso
più di tanto, era sempre una bella donna. I capelli, notò, erano più corti,
quasi a caschetto.
Attese tutto il tempo della cerimonia, recitò un Padre Nostro per l'amico scomparso,
poi, sempre stando ben attento a non avvicinarsi troppo al gruppo, li seguì
mentre la Mercedes nera con la bara si avviava verso il cimitero.
La giornata era fredda e nuvolosa, ma non pioveva. Avvolto nel suo trench beige,
Carlo si dispose a qualche metro di distanza dal punto in cui avveniva l'inumazione.
Riconobbe anche Martina, la moglie di Paolo, nel momento in cui lei si inginocchiò
piangendo davanti al cumulo di terra fresca. Poi, quando alla fine l'assembramento
man mano si sciolse, si avvicinò e si ritrovò da solo con la tomba di Paolo.
Allora si inginocchiò anche lui e, chiudendo gli occhi, salutò mentalmente l'amico
che se n'era andato. Fu solo quando si rialzò che si accorse di non essere più
solo. "Lo conosceva bene?", gli domandò una voce che riconobbe subito.
Si voltò. Morena era lì, a un metro da lui. E non lo aveva riconosciuto.
"Sì, ci eravamo conosciuti all'università. Era un caro amico".
"Mi scusi se le faccio questa domanda, ma qui ci conosciamo tutti e un
viso nuovo viene notato subito".
"Sì, lo posso immaginare".
"Io e Paolo ci conoscevamo fin da bambini. Io gli ero molto affezionata.
Era quella che si dice una brava persona, aveva un cuore d'oro e si faceva a
pezzi per gli altri. Lo sa che curava un sacco di gente assolutamente gratis?
Qui a Voltri ci sono degli extracomunitari irregolari che si arrangiano facendo
piccoli lavori saltuari. Quando qualcuno aveva bisogno, andavano tutti dal dottor
Paolo Piccardo. E lui non mandava mai via nessuno".
"No, questo non lo sapevo, ma mi sembra perfettamente coerente con il suo
carattere. Era bravo nell'animo…".
"Mi scusi, io le sto parlando ma non mi sono presentata: mi chiamo Morena
Ghiglione". E gli tese la mano. Lui la strinse e, con un piccolo sforzo
di fantasia, si inventò un nome nuovo. "Piacere, sono Michele Mondini".
Quindi, passo passo, si avviarono verso l'uscita del cimitero. Quando giunsero
al cancello lui si accorse che lei si guardava attorno smarrita nel piazzale
vuoto.
"Se ne sono andati – disse – ero in macchina con alcuni amici
e devono avere pensato che mi sia fatta dare un passaggio da qualcun altro".
"Poco male, se vuole ho la macchina qui: posso accompagnarla".
"La ringrazio, mi fa davvero un favore. è lunga fino all'Aurelia…".
In macchina ripresero a parlare. Fu lei a cominciare.
"Sa, è brutto quando si perde un amico che si conosce da tutta una vita.
è come se un pezzo di te morisse con lui. Io e Paolo, poi, ci siamo sempre
frequentati. Abbiamo fatto le stesse elementari, le stesse medie e lo stesso
liceo. Poi, da più grandi, noi due e diversi altri amici ci siamo tutti riuniti
nel Castello".
"Il Castello? - rispose lui fingendo di non sapere – Eravate in un
castello?".
"No, non in quel senso. Il Castello era un club che avevamo fondato per
poter stare tutti insieme. Ci siamo divertiti un mondo, là dentro. Era il nostro
Castello, appunto. E durò fino a quella sera, quando l'incendio distrusse tutto
e uccise uno di noi. Fu una vera tragedia…".
"Un incendio, dice. Deve essere stata una brutta esperienza davvero".
"Lo fu eccome. Una sera, improvvisamente, un grosso incendio distrusse
tutto. E dentro, in uno dei locali del Castello, c'era un ragazzo che non riuscì
a fuggire. Così morì lì dentro, carbonizzato".
"E come accadde? Intendo dire, fu un incidente o cos'altro…".
"Beh, in un certo senso fu un incidente. In un primo tempo pensammo che
a causare le fiamme fosse stato uno di noi che aveva buttato una sigaretta accesa
contro il muro. Le pareti erano ricoperte di canne per cui stavamo molto attenti
alle sigarette. Ma questo ragazzo aveva il brutto vizio di buttare le cicche
ancora accese per terra. E dal momento che quella sera i vigili del fuoco avevano
trovato due cicche di Gauloise, le sigarette francesi che solo lui fumava di
tutto il gruppo, pensammo subito a lui. Anche perché era stato l'ultimo a uscire
dal club quel pomeriggio. Insomma, ce la prendemmo con lui".
A quelle parole Carlo cominciò a sudare freddo. Però, ormai che c'era, sperava
di sapere qualcosa in più.
"E così fu lui a provocare l'incendio?".
"Questo è quello che credevamo, ma l'esito dell'inchiesta rivelò una verità
diversa. Risultò infatti che Davide, il ragazzo che in quel momento dormiva
nello stanzino dove avevamo una branda, si era fatto una canna e poi, intontito,
aveva lasciato cadere la sigaretta accesa sul materasso. Capisce? Era stato
lui stesso a provocare l'incendio, non l'altro".
A quelle parole Carlo si sentì gelare. Non era stato lui, dunque. Per tutti
quegli anni si era trascinato dentro il rimorso di quella morte e adesso, solo
adesso, scopriva che lui non c'entrava assolutamente niente.
"E di quel ragazzo – domandò – di quello accusato ingiustamente,
che cosa ne fu?".
"E chi lo sa? Se ne andò su due piedi e non lo vedemmo più. Pensi che tra
l'altro ero stata io che l'avevo fatto entrare nel Castello: l'avevo conosciuto
ai bagni e gli avevo proposto di venire con noi. Era lì da pochi mesi. Mi ricordo
soltanto che si chiamava Carlo. Chissà che fine ha fatto…".
Intanto erano arrivati. Lei aprì la porta e lo ringraziò. Lui stava per partire
ma poi gli venne un impulso irrefrenabile. Sporse la testa dal finestrino e
la chiamò.
"Mi scusi, mi permette una domanda un po' personale?", le disse con
gentilezza. Lei lo guardò un po' stupita e rispose, non senza una certa diffidenza,
"Prego, mi dica".
"Ti piace sempre la Piaf?", le domandò con una specie di sorriso negli
occhi.
"La Piaf? Ma certo, ma come fa lei a saperlo? Ma chi è lei? Chi…chi
sei tu?".
"Non importa. Buon Natale Morena, e grazie di tutto".
Quindi innestò la marcia e partì. Lei rimase lì, attonita, a guardare quella
macchina che se ne andava. E restò ferma fino a quando non sparì alla vista.
Lui sorrise e pensò che quello di Morena era stato il più bel regalo di Natale
che avesse ricevuto in tutti quegli anni. E adesso doveva sbrigarsi: doveva
salire sul primo aereo e tornare a Miami da Judy e dai bambini. Era tempo di
mettere i regali sotto l'albero.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
NOTTE DI NATALE, De Ferrari Editore, 2005, Edizione fuori commercio riservata alla Provincia di Genova, pp. 194, ISBN: 8871727231.
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