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(Il Giornale, Pubblicato Venerdì 18 Ottobre 1996)
Napoli
Dal nostro inviato
Rino Di Stefano
Nonostante
abbia tolto il disturbo da oltre due secoli, ancora oggi a Napoli quando lo
sentono nominare c'è chi si fa furtivamente il segno della croce. Del
resto non si può dire che Raimondo de Sangro, Principe di San Severo,
abbia lasciato un bel ricordo di sé. Di lui la gente racconta che fosse
una specie di stregone, un alchimista diabolico che faceva rapire poveri disperati
i cui corpi dovevano servire per i suoi turpi esperimenti, un castrafanciulli
senza Dio che nessun potere, neanche quello del re, riusciva a controllare.
Qualcuno arrivò a dire che aveva ucciso sette cardinali con le cui ossa
e pelle avrebbe fatto altrettante orribili seggiole. Ma se il popolino lo temeva
e lo diffamava, non è che le classi socialmente più elevate lo
stimassero più di tanto. Il principe, infatti, fu anche il primo Gran
Maestro della massoneria napoletana e accadde che un giorno, per salvare la
sua testa e le sue proprietà , non esitò a tradire tutti i «fratelli»
(tra i quali c'era il fior fiore della nobiltà napoletana) denunciandoli
al re. E finì che il nome di Raimondo de Sangro venne maledetto in tutte
le logge europee e in alcuni casi la sua effigie venne anche pubblicamente bruciata.
Insomma, quale primo massone «pentito» della storia italiana, non
si fece una bella fama. Prova ne sia che la stessa Treccani, pur riconoscendogli
« una vastissima notorietà nel regno e all' estero» mette
in dubbio persino le sue innegabili capacità scientifiche (era anche
Accademico della Crusca) sostenendo che «inventò , o credette di
inventare, nuovi tipi di armi da fuoco, e innumerevoli ritrovati nel campo della
pirotecnica, delle industrie tessili, della colorazione dei marmi e dei vetri,
della meccanica applicata, eccetera» .
Eppure,
se soltanto si scava un po' sotto la superficie del pregiudizio che si è
creato intorno all'immagine del Principe, emerge una ben diversa realtà.
E cioè che il Principe di San Severo non fu soltanto uno dei personaggi
più misteriosi e discutibili del Settecento europeo, ma anche una delle
menti più brillanti della sua epoca. Per molti versi, un uomo troppo
moderno per il suo tempo. E per questo suo modo di essere pagò il prezzo
che il destino gli aveva assegnato.
Ma vediamo un po' più da vicino chi è questo nobile napoletano
e che cosa ha lasciato per non farsi dimenticare dai posteri. Tanto per cominciare
la famiglia del Principe non era di origine napoletana. Discendente direttamente
da Carlo Magno attraverso il ramo di Oderisio, conte de Sangro (1093), la famiglia
contava una sfilza lunghissima di titoli, oltre al Principato di San Severo:
principe di Castelfranco, principe di Fondi, duca di Torremaggiore, duca di
Martina, e così via. Tra le altre cose, i de Sangro erano anche Grandi
di Spagna. Ed è appunto in uno di questi feudi, a Torremaggiore, in provincia
di Foggia, che Raimondo nacque il 30 gennaio del 1710, terzo di tre fratelli,
da don Antonio de Sangro e Cecilia Caietani d'Aragona. La madre morì
quando il bambino aveva soltanto un anno. E anche i primi due fratelli, Paolo
e Francesco, morirono in tenera età . Per cui a soli 16 anni Raimondo
ereditò il titolo di Principe di San Severo.
Il padre, sconvolto dalla morte della moglie, non si volle occupare del piccolo
e, prima di rinchiudersi in un convento per il resto dei suoi giorni, lo affidò
al nonno. Di intelligenza molto vivace, all'età di dieci anni Raimondo
venne inviato al Seminario di Roma dove venne affidato ai padri Gesuiti. Solo
a vent'anni, con un bagaglio culturale notevolmente superiore a quello solitamente
posseduto dai nobili dell'epoca, il giovane riuscì finalmente a tornare
nel palazzo dei suoi avi, a Napoli, fregiandosi del titolo di Principe di San
Severo. Così ce lo descrive Antonio Genovesi nella sua «Autobiografia»
:
«è di corta statura, di gran capo, di bello e giovanile aspetto;
filosofo di spirito, molto dedito alle meccaniche; di amabilissimo e dolcissimo
costume: studioso e ritirato; amante le conversazioni d'uomini di lettere. Se
egli non avesse il difetto di avere troppa fantasia, per cui è portato
a vedere cose poco verosimili, potrebbe passare per uno dè perfetti filosofi»
.
La fantasia, appunto. Il Principe ne aveva
da vendere ma non si limitava a mantenerla allo stato teorico, la metteva in
pratica concretizzandola in tutte quelle invezioni che poi lo resero famoso.
Una per tutte, il controverso «lume eterno» che don Raimondo realizzò
triturando le ossa di un teschio: ottenne una mistura, probabilmente a base
di fosfato di calcio e di fosforo ad alta concentrazione, che aveva la capacità
di bruciare per ore consumando una quantità trascurabile di materia.
Il più illustre dei suoi estimatori fu proprio il re Carlo III di Borbone,
figlio di Filippo V di Spagna, che a soli 17 anni il 10 maggio 1734 entrò
trionfante a Napoli per prendere possesso del Regno delle due Sicilie dopo avere
sconfitto gli austriaci. Seppur ancora un ragazzo, il sovrano comprese che doveva
circondarsi di persone fidate per familiarizzare con il regno che si era appena
conquistato. Così , subito dopo le sue nozze con Amalia Walburga di Polonia,
istituì l'Ordine cavalleresco di San Gennaro del quale egli si proclamò
Gran Maestro. A questo ordine avrebbero appartenuto solo sessanta blasonati
della più antica nobiltà , scelti uno per uno dal re in persona.
Il Principe di San Severo fu uno dei primi a essere chiamato.
Don Raimondo sapeva che il re amava la caccia. Allora, per ringraziarlo dell'onore
che gli aveva concesso, gli fece fabbricare dei mantelli di un tessuto impermeabile
di sua invenzione, una novità assoluta per l'epoca. E il sovrano, ovviamente,
ne restò entusiasta.
La stima verso di lui crebbe anche col tempo. Nel 1744, per esempio, il Principe,
colonnello del reggimento di Capitanata, liberò alla testa delle sue
truppe la città di Velletri occupata dall'esercito del generale Lobkowitz.
E anche in quell'occasione si conquistò un ulteriore plauso del sovrano.
Sempre per restare nel campo militare, a lui si devono le invezioni di uno speciale
cannone in lega di ferro (allora erano di bronzo) e di un fucile a retrocarica
che di fatto anticipò l'invenzione del Lefaucheux, l'ideatore della nuova
arma.
Ma ben altri erano gli interessi
che il Principe covava nella sua mente. Nonostante l'insegnamento religioso
che aveva ricevuto dei gesuiti, ben presto il giovane nobile napoletano entrò
a far parte della Confraternita segreta dei Rosa-Croce dove venne iniziato agli
antichi riti alchemici, la cosiddetta «arte sacra» o «arte
regia» , che fin dai tempi più remoti i sacerdoti egiziani tramandavano
ai propri discepoli. Don Raimondo aveva trovato la sua strada. Pur mantenendo
il più assoluto silenzio sui «fratelli» e sull'insegnamento
che stava ricevendo (non ha lasciato documenti di alcun genere sull'attività
della misteriosa setta) il Principe cambiò radicalmente la propria vita
dedicando tutto il suo tempo all'alchimia. Alambicchi, forni e provette riempirono
così lo scantinato del suo palazzo e di notte non era raro vedere strani
fumi colorati e sentire odori pestilenziali che fuoriuscivano dalle finestre
sbarrate che davano sulla strada. Fu in quel periodo che i napoletani gli appiopparono
la nomea di stregone.
Ma Raimondo de Sangro aveva anche un altro hobby: il bel canto. Nonostante conoscesse
i piaceri della famiglia e della paternità (aveva sposato Carlotta Caietani
d'Aragona, parente di sua madre, e aveva cinque figli: Vincenzo, Paolo, Gianfrancesco,
Carlotta e Rosalia), il Principe si dilettava a girare per i suoi vasti possedimenti
in cerca di fanciulli dalla bella voce. Di solito li trovava nei cori parrocchiali.
Allora li «comprava» dai genitori (quasi sempre contadini analfabeti
senza un soldo ma con tanta prole), li faceva castrare dal suo medico di fiducia,
il palermitano don Giuseppe Salerno, e poi li rinchiudeva nel Conservatorio
dei Poveri di Gesù Cristo, a Napoli, dove i castrati venivano avviati
alla carriera di «sopranisti» .
Nonostante la maggior parte di questi sfortunati cantanti venisse proprio dal
Regno delle due Sicilie, la moda dei castrati era originaria del Regno Pontificio
dove il Papa aveva vietato alle donne di calcare le tavole del palcoscenico.
Nelle terre dei Borboni, invece, questo divieto non esisteva. Tanto è
vero che si conoscono i nomi di molte cantanti del tempo. Ma i napoletani, e
non solo loro, andavano pazzi per la voce dei castrati. E tra questi c'era anche
il Principe che, però , nei castrati vedeva anche un'altra cosa: quella
ricerca della perfezione che i Rosa-Croce identificavano nell'«annullamento
del dualismo della separazione, nel ritorno all'androgino primordiale»
. Insomma, i ragazzi scelti dal Principe facevano le spese di un'astratta quanto
assai poco commendevole speculazione filosofica. E il fatto che alcuni di essi
diventassero ricchi e famosi non li ripagava davvero di quanto avevano perso.
La vera ossessione del Principe
erano comunque i posteri, e cioè noi. Per anni ha pensato a come poteva
stupirci, a come poteva entrare nella storia con un ruolo da protagonista. Ed
è nato così quel capolavoro di arte ermetica che è la Cappella
di San Severo. Per trovarla dobbiamo addentrarci nel cuore della vecchia Napoli.
Girando tra vicoli e straduzze, alla fine arriviamo in piazza San Domenico Maggiore.
Lì , di fronte all'obelisco che ricorda le migliaia di bambini napoletani
morti durante le ricorrenti pestilenze, c'è il palazzo del Principe di
San Severo. Guardando in basso, ai lati dell'antico portone al civico 9, si
vedono ancora le feritoie sbarrate di quello che una volta era il laboratorio
di don Raimondo. Pochi passi avanti, giriamo l'angolo dell'edificio, e ci troviamo
in via Francesco De Sanctis, dove al 17 c'è l'ingresso della Cappella
detta «della Pietatella» . Le cose che stiamo per vedere sono assolutamente
straordinarie, comunque le si voglia considerare. Entrando la prima impressione
è quella di trovarsi in una chiesetta rettangolare di stile barocco,
fin troppo ricca di fregi e dipinti. Intorno a noi ci sono diciotto statue rappresentanti
per la maggior parte parenti diretti del Principe: diciassette ai lati e alle
spalle, una al centro del locale. In fondo, davanti a noi, l'imponente altare
maggiore.
Tutte le statue sono di ottima fattura e portano il nome di famosi scultori
dell'epoca. Tre di queste, però, sono davvero particolari. La prima,
quella che si trova al centro della Cappella, è il cosiddetto Cristo
velato, opera di Giuseppe Sammartino (1720-1793). Si tratta di un Cristo morente
interamente ricoperto di un velo di marmo che fa corpo unico con la statua stessa
e con il giaciglio sulla quale è stata scolpita. Lo straordinario è
che le fattezze del Cristo (gli occhi, il naso, la bocca, i muscoli delle braccia)
si intravedono da «sotto» il velo, e cioè l'impressione è
che la statua sia stata «successivamente» ricoperta con un velo
di marmo che poi si è «amalgamato» con il resto della statua.
Se
credete di aver preso un abbaglio, spostatevi leggermente a destra, quasi in
fondo alla Cappella. Sopra di voi si erge la statua del Disinganno, capolavoro
del genovese Francesco Queirolo (1704-1766). L'opera, che rappresenta Antonio
de Sangro, duca di Torremaggiore e padre del Principe, mostra un uomo che si
divincola in una rete cercando di liberarsene con l'aiuto di un giovinetto alato.
Il significato allegorico è quello di un uomo alle prese con le false
verità della vita (la rete) dalle quali vuole liberarsi tramite l'intelletto
(il giovinetto). Ciò che stupisce il visitatore è che la rete
circonda interamente una statua già scolpita, pur essendo parte integrante
di essa. Come è possibile?
Di fronte, sulla sinistra, troviamo la statua della Pudicizia, opera di Antonio
Corradini (1668-1752). Rappresenta la madre del Principe, Cecilia Caietani d'Aragona,
e mostra una donna nuda, piuttosto giunonica, ricoperta da capo a piedi di un
finissimo velo di marmo che ne fa intravedere in ogni dettaglio le sembianze.
Secondo alcuni, l'allegoria sarebbe quella della sapienza il cui velo deve essere
sollevato da chi vuole impadronirsene.
Il problema è : come hanno fatto questi scultori a ricoprire con veli
e reti di marmo i loro lavori? Allo stato attuale delle cose, la risposta non
esiste. Volendo, si può fare un'ipotesi. Alcuni sostenitori del Principe
(don Raimondo ha i suoi ammiratori anche nella Napoli di oggi) sostengono che
i veli sono stati ottenuti «cristallizzando una soluzione basica di idrato
di calcio o calce spenta» . Il processo sarebbe stato il seguente: la
statua veniva posta in una vasca e ricoperta da un velo, o da una rete, bagnati;
su questi veniva versato latte di calce diluito e sul liquido veniva spruzzato
ossido di carbonio proveniente da un forno a carbone. In questo modo si otterrebbe
una precipitazione di carbonato di calcio, e cioè marmo, che si unirebbe
al resto della statua. Finora, però , nessuno ha dimostrato con i fatti
che questa teoria sia quella giusta.
Altrettanto stupefacente è poi la lapide tombale dello stesso Principe
(vi si accede dalla destra, attraversando una volta ad arco). Si tratta di una
grande lastra di marmo interamente ricoperta di una scritta in latino (anche
questa opera di don Raimondo) i cui caratteri sono tutti in rilievo. Tra le
altre cose vi si legge:
«UOMO MIRABILE, NATO A TUTTO OSARE, Raimondo de Sangro, Capo di tutta
la sua famiglia, Principe di San Severo, Duca di Torremaggiore… illustre nelle
scienze matematiche e filosofiche, insuperabile nell'indagare i reconditi misteri
della natura, esimio e dotto nei trattati e nel comando della tattica militare
terrestre e, per questo, molto apprezzato dal suo Re e da Federico di Prussia…imitando
l'innata pietà a lui pervenuta per l'ascendenza di Carlo Magno imperatore, restaurò
a sue spese e con la sua saggezza questo tempio… AFFINCHÈ NESSUNA ETÀ LO
DIMENTICHI» .
Nel sarcofago, comunque, il corpo del Principe non c'è : qualcuno, chissà
quando e perché, lo ha trafugato.
Ma il pezzo forte della cappella non
sono le statue. Se non si è troppo impressionabili, vale la pena di scendere
una scaletta a chiocciola che porta a quello che una volta era il vano d'ingresso
al laboratorio segreto. Qui, in due teche di vetro alte circa due metri, sono
conservate le cosiddette «macchine anatomiche» .
Lo scheletro della donna ha il braccio destro alzato e i globuli oculari interi,
quasi ancora lucenti, in un'espressione di vero terrore. Sembra quasi che invochi
aiuto. Le ossa sono interamente rivestite dal fittissimo sistema arterioso e
venoso che, metallizzandosi, ha preservato anche gli organi più importanti.
Il cuore è intero e nella bocca si possono riconoscere persino i vasi
sanguigni della lingua. Era incinta. Nel ventre si può notare la placenta
aperta dalla quale fuoriesce l'intestino ombelicale che va a congiungersi con
il feto. Così come quello della madre, anche il cranio di questo bambino
mai nato si può aprire per vederne all'interno la complessa rete dei
vasi sanguigni.
Il corpo dell'uomo ha più o meno le stesse caratteristiche, solo che
le braccia scendono lungo il tronco. Lavorando di fantasia, si potrebbe pensare
che entrambi siano stati legati mani e piedi ad una specie di tavolo operatorio
e che solo la donna, prima di morire, sia riuscita a liberare il braccio destro
che ha agitato, cercando scampo, fino a quando la sua circolazione sanguigna
non si è bloccata.
Ma come ha fatto realmente il Principe a realizzare le sue «macchine anatomiche»
? Non lo sappiamo. Leggendo la «Breve nota di quel che si vede in casa
del Principe di San Severo» edita per la prima volta nel 1766, e quindi
quasi certamente scritta dallo stesso Principe, si legge che nella Cappella
«si veggono due Macchine Anatomiche, o, per meglio dire, due scheletri
d'un Maschio, e d'una femmina, nè quali si osservano tutte le vene, e tutte
le arterie dè Corpi umani, fatte per injezione, che, per essere tutt'intieri,
e, per la diligenza, con cui sono stati lavorati, si possono dire singolari
in Europa» .
Alla luce delle attuali conoscenze mediche, si potrebbe pensare che il diabolico
don Raimondo, sempre con l'assistenza del medico Giuseppe Salerno, abbia iniettato
nelle vene delle due malcapitate cavie una sostanza che, entrando in circolo,
abbia progressivamente bloccato la rete sanguigna fino alla morte dei soggetti.
A questo punto la misteriosa sostanza avrebbe «metallizzato» vene
e arterie preservandole dalla successiva decomposizione. Il Principe, infatti,
deve aver aspettato che pelle e carne si decomponessero completamente prima
di ottenere quelle che lui, con tanta pomposità, chiamava le «
macchine anatomiche» .
I
dubbi, comunque, restano. Infatti nel 1700 la siringa ipodermica necessaria
per fare appunto quell'« injezione» , non c'era ancora in quanto
fu inventata quasi un secolo dopo dal chirurgo Carlo Gabriele Pravaz (1791-1853)
di Lione. Ed è proprio questo l'argomento usato dai sostenitori del Principe
che, rifiutando il fatto che l'uomo e la donna possano essere stati sottoposti
da vivi a quell'orribile esperimento, sostengono invece che quegli scheletri
sono soltanto povere ossa ricoperte da una rete artificiale di vasi sanguigni.
Anche se un esame compiuto negli anni Cinquanta aveva rivelato «che l'intero
sistema di vasi sanguigni, all'analisi, si è rivelato metallizzato, cioè
, impregnato e tenuto in sesto da metalli in esso depositati» .
Comunque le statue e le «macchine anatomiche» non sono gli unici
misteri della cappella. è sicuro che tramite la disposizione dei monumenti
e il contenuto dei dipinti, il Principe abbia voluto lasciare un messaggio di
tipo massonico o, meglio, ermetico. Tanto più che egli stesso ha manifestato
su una piccola lapide contenuta nella Cappella «la volontà di stupire,
di scoprire e di ammaestrare del committente» . Anche in questo caso fino
ad oggi nessuno ha saputo spiegare esaurientemente il contenuto di quel messaggio,
anche se molti hanno azzardato ipotesi più o meno verosimili.
A questo proposito la stessa esperienza massonica del Principe non fu delle
più felici. Intriso com'era di esoterismo, non stupisce che quando nel
1750 la massoneria fece capolino a Napoli don Raimondo decidesse di farne parte.
E non stupisce nemmeno che, visto il prestigio di cui godeva, i «fratelli»
lo avessero nominato Gran Maestro di tutto il Regno. La suggestione occultistica
e alchimistica introdotta dal filone scozzese nella struttura razionalistica
della massoneria di tipo inglese, faceva molta presa sulla nobiltà e
sulla borghesia. E il Principe seppe sfruttarla tanto bene che ben presto nella
sola Napoli si contarono un migliaio di «fratelli» suddivisi in
diverse logge.
C'è da dire, però , che i massoni di una volta erano un po' diversi
da quelli odierni. Nel Settecento spesso le logge prendevano il nome delle taverne
dove i «liberi muratori» si incontravano per discutere di filosofia,
di esoterismo e di politica. Alla fine della seduta, si sedevano tutti intorno
ad un tavolo e cominciavano a mangiare e bere a sazietà . Tanto poi che
concludevano la serata cantando a squarciagola. Alcune di quelle canzoni sono
arrivate sino a noi. Sentite questa sul divieto delle donne a far parte della
massoneria:
«Se tra noi luogo non hanno
Le tue ninfe, Amor, perdona;
Che ove il
nome tuo risuona,
Tutto è colpa e tutto è inganno
Né tener san donne
imbelli
Il segreto dei fratelli» .
Tuttavia il fatto che nelle logge si parlasse di eguaglianza e di libero pensiero
non poteva non impensierire il Santo Uffizio, e cioè il tribunale dell'Inquisizione,
che da tempo cercava senza successo di aprire una
sede nel Regno delle due Sicilie. L'iniziativa la prese il pontefice Benedetto
XIV, papa Lambertini, che il 15 gennaio 1751 fece sapere all'ambasciatore di
Carlo III di essere gravemente preoccupato per il diffondersi della massoneria
nel Regno e negli stessi ambienti di corte. La missiva del Papa trovò terreno
fertile perché anche il re borbone si era dato da fare per saperne di più su
«un'unione senza l'intelligenza ed approvazione del Sovrano» . Inoltre proprio
in quell'anno il miracolo di San Gennaro non si era compiuto e il popolino,
aizzato da un certo padre Pepe, aveva dato vita ad un vero e proprio movimento
popolare contro i massoni, considerati i responsabili del mancato prodigio.
Per farla breve, il 28 maggio 1751 Benedetto XIV emano la bolla «Providas Romanorum
Pontificum» con la quale rinnovò la scomunica della Chiesa verso la massoneria,
già espressa tredici anni prima dal suo predecessore Clemente XII.
Ovviamente il più preso di mira da tutta questa agitazione anti-massonica fu
proprio il Principe di San Severo, il quale, però , avendo fiutato il vento,
e comprendendo che si stava giocando vita e onori, si era mosso prima che il
bubbone scoppiasse. Infatti il Papa non sapeva che fin dal 26 dicembre 1750
don Raimondo si era presentato al re e gli aveva consegnato la lista dei nomi
degli affiliati e tutti i documenti relativi alle logge presenti nel regno.
Carlo III pubblicò l'editto contro i «liberi muratori» il 2 luglio 1751. Il
primo agosto il Principe scriveva al Papa ritrattando la sua fede massonica
e mettendosi sotto la sua protezione.
Così facendo don Raimondo tradì il segreto massonico e salvò la sua testa, ma
non solo quella. Infatti il re, che non aveva nessuna voglia di mettere in carcere
metà della sua corte, si limitò a impartire una «solenne ammonizione» a tutti
i massoni napoletani.
Messo all'indice dalla «fratellanza» internazionale e dagli stessi amici di
un tempo, il Principe tornò a occuparsi per altri vent'anni della sua alchimia
fino a quando la sera del 22 marzo 1771 la morte lo colse «per malore cagionatogli
dai suoi meccanici esperimenti» . Probabilmente aveva inalato o ingerito qualche
sostanza tossica durante le sue lunghe notti nel laboratorio.
Ma c'è un ultimo mistero che Raimondo de Sangro si è portato nella tomba. Nel
1790 di fronte al tribunale romano dell'Inquisizione il conte di Cagliostro
affermò che tutte le sue conoscenze alchemiche gli furono insegnate anni addietro
a Napoli da «un principe molto amante della chimica» . I giudici non gli vollero
credere e non diedero peso alle sue parole. Forse il nome di quel principe venne
anche pronunciato, ma non lo possiamo sapere visto che tutti gli atti di quel
processo furono dichiarati segreti e si trovano ancora oggi sotto chiave da
parte della Reverenda Camera Apostolica.
Del processo di Cagliostro, che si concluse con la condanna e l'internamento
dell'imputato nella rocca di San Leo, ci è rimasto solo un compendio fatto ad
uso e consumo dell'Inquisizione. Chissà, se solo il Vaticano volesse, forse
si potrebbe scoprire che quel geniaccio di Raimondo de Sangro fu anche il maestro
del ben più noto Cagliostro. Ma questa pagina di storia è ancora tutta da scrivere.
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